Svegliarsi & risvegliarsi

10/06/2012 alle 5:50 am | Pubblicato su L'aquila | 1 commento

Svegliarsi con là bocca come impastata.

Svegliarsi meno riposati di quando ci siamo addormentati; addosso, come una putrida pelle, la maledetta  sensazione che nulla più sarà come prima.

Svegliarsi la domenica ed avere come unica consolazione che, almeno oggi, siamo tutti a casa; e pensare al lavoro, e sentirsi come svuotati, con poca voglia di “fare”, ma al tempo stesso tuffarcisi dentro, come per ubriacarsi e non pensare..

Svegliarsi e guardare i miei amatissimi cd, alcuni dei quali con la custodia rottasi quella maledetta notte, e non immaginarmi inebriato come al solito al loro ascolto; e pensare al concerto di Bruce a Firenze, a quel mezzo pensiero ai confini della follia di andarci, fatto alcuni secoli fa; e trovarsi ad invidiarne i partecipanti non tanto (e non solo) per la musica, ma quanto per l’allontanamento fisico e mentale.

Svegliarsi sentendosi tradito dalla mia terra tanto amata, svegliarsi, però, con un profondo senso di rabbia verso questi  “dotti medici & sapienti”, pseudo tecnici-burocrati che, forse solo per pararsi il culo, hanno rimesso in allarme una popolazione già fortemente provata (sia praticamente che anche “solo” psicologicamente), pensare a quale senso possa avere scrivere quelle cose e renderle pubbliche senza peraltro avere qualcosa di serio od un piano per evitare problemi, se non tutelarsi loro e basta.

Svegliarsi una mattina della nuova vita del “dopo” ed avere più stati d’animo tra loro contrastanti, un misto di disperazione, di tensione, di allarme, ma anche di forte irritazione e di enorme desiderio di mettersi tutto alle spalle il prima possibile e ricominciare la vita quotidiana: proprio quella banale quotidianità di cui a volte ci si vergognava..

 

Con questi stati d’animo saluto tutti, ed in particolare coloro che, come me, hanno un legame con persone, luoghi, affetti che vivono o hanno vissuto in questa parte della pianura padana. Siete tanti, siete forti, e questa stessa forza la distribuite a piene mani con le vostre parole: siate consapevoli di quanto siete importanti. Per la prima volta in tanti anni, ho stampato tutti i commenti dal 20 maggio in poi e li conservo nella mia moleskine: non ho parole per rappresentare degnamente quanto mi riempiano di energia.

Best of week

03/02/2012 alle 6:33 PM | Pubblicato su In ritardo per il cielo | 6 commenti

[da vecchio seguace dovrei amareggiarmi, ma sentire “Lusi in the sky with diamond” m’ha fatto piegare in due…]

Ho la febbre in tutto il corpo.

25/01/2012 alle 9:49 am | Pubblicato su Uncategorized | 2 commenti
Domenica 19 agosto 1928
Mia amica. Ho la febbre in tutto il corpo. Il tuo contatto mi ha riempito di tutte le dolcezze. Mai come in questi lunghissimi giorni, ho tanto centellinato i sorsi della vita. Prima vivevo le ore tranquille di Tantalo ed ora, oggi, l’oggi eterno che ci ha uniti, vivo, senza saziarmi, tutti i sentiti armoniosi dell’amore tanto cari a Shelley ed alla George Sand. Ti dissi – in quell’amplesso espansivo – quanto tempo ti amavo, ma vorrei dirti anche quanto ti amerò, perché il pane della mente che sa materializzare tutte le idealità elette dell’esistenza umana, ci sarà la guida più esperì a ,pieno di tante abilità, risolutrice di tutti i problemi nostri, che – e te lo dico con tutta la sincerità di un amico, di un amante di un compagno il nostro unisono bene sarà bello e lungo, godente e pieno di tutti i sentimenti, grande e sconfinatamente eterno. Quando ti parlo di eternità – tutto ciò che il cuore ha voluto ed amato è eterno – voglio alludere all’eternità dell’amore. L’amore mai muore. L’amore che ha germogliato lontano dal vizio e dal pregiudizio, è puro e nella sua purezza non si può contaminare e l’incontaminato è dell’eternità. Vorrei potermi esprimere sempre nel tuo idioma (Fina gli scriveva sempre in Castigliano, n.d.r.) per cantarti ogni attimo del tempo la dolce canzone dell’anima mia, farti comprendere i palpiti che percuote fortemente il cuore, le delicate figurazioni del pensiero mio che di te invaghitesi non potrà mai dare il “finis” della sua elegia. Ma d’altra parte – io che credo che il mio amore è da te contraccambiato con tutta la possanza della tua gioventù ancora in bocciolo, l’ho letto tante volte sulle tue nere pupille – mi contento nel sapere che per comprendere queste linee debbono essere rilette più di una volta da te. Tu non avrai tempo di scrivermi. Tu devi ancora dedicarti allo studio. Baciami come io ti bacio. Rendimi duplicato il mio bene che ti voglio. Sappi che ti penso sempre, sempre, sempre. Sei l’angelo celestiale che mi accompagna in tutte le ore tristi e liete di questa mia vita refrattaria e ribelle. Con te, ora e sempre.
Tuo Severino
 
Severino è Severino di Giovanni, e la lettera è indirizzata ad America Josefina Scarfò detta “Fina”, italoargentina di origine calabrese (Buenos Aires 1913-26 agosto 2006). Siamo, appunto, nella Argentina degli anni ’20, tra anarchia, terrorismo, amore ed impegno politico. Qui, la figura romantica di Fina diventa un’icona negli ambienti anarchici. Sorella di Paulino ed Alejandro Scarfò, anarchici e compagni di lotta di Severino, si innamora a 15 anni di quest’ultimo, e ne condivide le sorti fino alla fucilazione, avvenuta il 1 febbraio 1931. La stessa sorte tocca il giorno seguente al fratello Paulino. Restata sola, in un mondo assolutamente nemico, continua a mantenere viva la memoria dei suoi cari, ed avuto notizia, negli anni settanta, che la polizia federale argentina è ancora in possesso delle lettere d’amore che Severino  le aveva scritto, intraprende una lunga lotta con la stessa, al fine di ottenerne la restituzione, che finalmente ottiene durante il governo di Carlos Menem.  Fina  intanto si è laureata in lingua e letteratura italiana, ha fatto l’editrice per decenni, prendendosi a 86 anni il diploma universitario di “traductora publica” dal francese continuando a frequentare, nonostante l’età, l’università di Buenos Aires. Tutto ciò per adempiere giorno per giorno al monito di Severino che prima di morire le ha raccomandato “Continua a studiare!”.
La storia d’amore è stata raccontata da Maria Luisa Magagnoli nel romanzo biografico “Un caffè molto dolce” [Bollati Boringhieri, 1996]. Il racconto ripercorre le tappe della storia d’amore e d’anarchia che nel tempo si è diffusa e propagata a macchia d’olio dall’America Latina in tutto il mondo. L’insegnante Di Giovanni è emigrato da Chieti in Argentina con la moglie Teresa e tre figli, approdando per caso nell’abitazione della famiglia Scarfò, d’origine calabrese – la madre Caterina Romano originaria di Tropea e il padre Pietro Scarfò di Portigliola – la quale offre ai Di Giovanni, in affitto, parte dei propri locali. Dalla convivenza tra le due famiglie nasce l’amore tra il giovane e la quindicenne Josefina America. Le lettere che Severino di tanto in tanto fa recapitare alla ragazza contengono parole sublimi di ardore e passione che però danno un tono sempre rispettoso alla relazione tra i due, in contraddizione con il modus operandi dell’anarchico che predilige, in nome della sua libertà, le scorribande terroristiche cittadine dispensando dinamite e pallottole in decine e decine di attentati sanguinari. Per potere stare assieme a Severino, e quindi lontano dai suoi, America sposa, d’accordo con l’amante, un certo Silvio Astolfi che dopo la morte di Di Giovanni abbandona, troncando i rapporti con la propria famiglia.
Come stanno le begonie?” è il primo punto di domanda che Severino rivolge ad America per rompere il ghiaccio di quella che sarà la loro relazione sentimentale. E’ la frase che col tempo è divenuta “cult” tra i giovani [e meno giovani] argentini per auspicarsi che l’inizio dell’approccio amoroso vada verso il buon esito sperato. Da tempo è adottata nello scambio degli auguri in occasione della Festa di San Valentino. [Per la cronaca, la risposta di Fina è stata “Sono triste!”].
Arrestato e condannato a morte, a Severino viene concesso di salutare Fina, anch’essa detenuta, prima dell’esecuzione. Lei lo abbraccia, lui la bacia. Le chiede di badare ai figli che egli ha avuto con Teresa, sua moglie. America gli risponde: “Il tuo ricordo mi rimarrà fino alla morte“. Lui la guarda con gli occhi pieni di lacrime e le dice:”Oh, Fina, tu sei così giovane!Devi continuare a studiare“. Si baciano di nuovo. Fina esce, continua a guardarlo, per questo inciampa in una grata e Severino le dice: “Stai attenta!“.
I principali giornalisti di Buenos Aires assistono alla fucilazione. La miglior cronaca è quella di Roberto Arlt che non aggiunge alcun commento da parte sua, si limita a descrivere quel “teatro irrazionale della forza bruta contro le idee. La scarica terminò con il più bello tra i presenti”, come conclude il suo articolo per  il Buenos Aires Herald.
Il giorno seguente cade anche Paulino Scarfò dinanzi al plotone di fucilazione. Sia Severino che Paulino, prima d’esser fucilati, sono stati barbaramente torturati dalla polizia di Uriburu. Ma essi non fanno  il nome di nessun compagno. L’ultimo incontro tra Fina ed il fratello è brevissimo. Lei non riesce a dissimulare il proprio dolore nel vedere il suo volto gonfio. Lui la trattiene: “Non piangere“. Poi, con molto affetto, aggiunge: “Povera ragazza“. Le bacia una guancia. Lei lo bacia con forza e gli chiede: “Non vuoi vedere la mamma?”.  Lui risponde: “No, non vedi come sto?“. Gli si vedono tutti i segni delle torture. Poi aggiunge: “Sto desiderando che tutto questo termini una volta per tutte“. La bacia. Fina lo riabbraccia, si guardano negli occhi, ma non piange. L’agente di custodia  sollecita [possiamo immaginare con quale garbo]  di farla finita. Fina se ne va, il passo deciso. Sia Severino che Paulino, di fronte all’ordine di far fuoco,  gridano con tutto l’ultimo fiato: “Viva l’anarchia!“. Accade nel penitenziario di Buenos Aires, e le scariche sono talmente intense ed accanite da essere udite fino nei giardini del quartiere Palermo.  Nell’arco di 48 ore alla adolescente Fina hanno strappato due suoi grandi affetti. Resta sola, in un mondo assolutamente nemico. Ma combattiva, decisa, pugnace.
Ed innamorata di vita e di amore.

Carissima, più che con la penna, il testamento ideale m’è scaturito oggi dal cuore, quando ho parlato con te: le mie cose, i miei ideali. Bacia mio figlio, le mie figlie. Sii felice. Addio, unica dolcezza della mia povera vita. Ti bacio molto. Pensami sempre.
Il tuo Severino“.

Due mani

11/12/2010 alle 8:16 PM | Pubblicato su Uncategorized | 4 commenti

Poi succede che il tempo passa, le cose si consumano e si logorano, ed arriva la mattina in cui ti trovi in buchetta un biglietto del caposcala che ti “ricorda” che la porta del garage è da riverniciare. Allora tu, che in cuor tuo sai di essere bisognoso di consigli, ma che non ti rivolgeresti mai (“orgoglio, e poi vergogna di me stesso”) ad alcuno dei tuoi condomini, compresi quei tuttologi che trasformano i pomeriggi estivi, grazie all’uso dei loro maledetti attrezzi da lavoro, in rumorose sessioni che riecheggiano quelle delle gloriose Officine Breda in Milano, ti poni la fatidica domanda: che fare?

Allora ho chiesto consigli a chi mi amministra: ai politici. Così, mi sono messo di buona lena, ho inviato la foto della porta semiarrugginita ad alcuni prestigiosi ed autorevoli esponenti politici, e ne ho ricevuto i seguenti consigli.

Tremonti: “Pev vivevniciave la tua povta, fai compevave la vevnice da tuo cognato titolave di pavtita IVA, che la povtevà in detvazione; poi inizi a dipingeve, ma dopo due pennellate fai vipovtave il bavattolo indietvo al negoziante,con la scusa che olezza; te ne fai dave uno nuovo in cambio, dal quale attingevai altve due pennellate, poi vipovti indietvo anche quello, e così via finchè non finisci la povta. A quel punto, con l’ultimo bavattolo che vestitusci, ti fai fave un buono spendibile pev una pvossima occasione, e magavi ti compvi un altvo oggetto coi soldi che vispavmi dalla vevnice, povca tvoia!”.

Fini: “Cavoli tuoi: mio cognato non ha di questi problemi

Casini: “Tu devi riverniciare quella porta per il bene tuo e di tutta la tua famiglia

Scajola: “Non saprei cosa dirti. La mia la riverniciano a mia insaputa”.

Rutelli: “Vai tranquillo, scenderà su di te lo Spirito Santo, e la sua mano guiderà la tua

Bersani “Oh, ciccio, se vai alla Coop c’è il 20% di sconto sulle vernici e sui pennelli, sorbole!

Vendola: “ C’è poesia nel dipingere una porta: lascia fluire la vernice come il blu di un cielo infinito ed il pennello come il vento tra le fronde, ed il lavoro ti sarà leggero e dolce

D’Alema: “Una porta, tsè…il dipingere, il “pittare” come si dice da noi, è tutta un’altra cosa

Bossi: “te, te devi da adupera’ smalto all’acqua, l’acqua del Dio Po, e la porta si vernicerà da sola

Il Cavaliere (nota: non lo nomino, perché di sicuro mi taglierei sulla ruggine e mi verrebbe il tetano, come minimo): “Ma cribbio….in che condizioni è questa porta! Del resto, in un palazzo costruito dalle cooperative rosse….Fa schifo, mi fa orrore….perché voi siete i…i…i soliti….comunisti!

Maroni: “Tipica porta da terroni

Veltroni: “E’ un po’ come in quel film, “La staccionata”, con Buster Keaton..non possiamo non ricordare Buster Keaton, tutti noi nati negli anni ’50 siamo cresciuti a panini, figurine e Buster Keaton….un maestro per tutti quelli venuti dopo

Mussolini (nel senso di Alessandra): “Non ci metto bocca

Carfagna: “Non ci metto lingua

Gelmini: “Puoi lavorare sotto l’ egìda di un buon manuale del faidathe

Santanchè: “Quante storie! La fai dipingere da un clandestino e quando ti chiede i soldi tu chiama i carabinieri

Cordero di Montezemolo: “ Ad occhio, tu hai il know how per realizzare con piena soddisfazione un very good job. Peccato non possa usare il Rosso Ferrari, ne uscirebbe un gioiellino”

Ma il consiglio forse migliore (tutti buonissimi, per carità) mi è arrivato da Di Pietro: “Eh santa madonna, che ci vo’? Un pennello, un barattolo, un maglione vecchio…mica devi stare a taglià il salame col cucchiaio..

Però lo smalto lo vado davvero a comperare alla Coop, tiè.

Una storia italiana vol.2

18/01/2006 alle 8:14 PM | Pubblicato su Storia | 5 commenti
Sembra un giallo, ma non lo è. E’ tutto rigorosamente autentico, al punto che diversi link che avevo salvato -sono un navigatore dal 1998- e da cui ho tratto molto materiale sull’argomento, sono spezzati. Il titolo del post fa riferimento al volume 1, che è quello recapitato in tutte le cassette postali delle famiglie italiane ai primi di maggio del 2001.


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20 maggio 1981: la notizia la dà il telegiornale della notte: la presidenza del Consiglio dei ministri ha deciso di rendere pubblici gli elenchi della loggia massonica P2, l’associazione segreta che il Maestro venerabile Licio Gelli chiama “l’Istituzione”. L’Italia è scossa: di quella loggia misteriosa si parla ormai da molto tempo, ma ora i suoi componenti prendono un nome e un volto. E gli italiani scoprono che esiste un potere sotterraneo, un governo parallelo, uno Stato nello Stato. Negli elenchi della loggia sono iscritti i nomi di quattro ministri o ex ministri, 44 parlamentari, tutti i vertici dei servizi segreti, il comandante della Guardia di finanza, alti ufficiali dei Carabinieri, militari, prefetti, funzionari, magistrati, banchieri, imprenditori, direttori di giornali, giornalisti…
Una settimana dopo, il governo presieduto da Arnaldo Forlani dà le dimissioni. Nasce il primo governo laico della storia d’Italia, guidato da Giovanni Spadolini, è varata una commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia di Gelli, sotto la presidenza di Tina Anselmi. è approvata una legge dello Stato che vieta le associazioni segrete e scioglie la P2. I capi dei servizi di sicurezza sono tutti licenziati. Qualche piduista ha la carriera bloccata, qualcuno subisce procedimenti disciplinari, una ventina di affiliati finisce sotto processo. I magistrati aprono indagini sulla loggia, con l’ipotesi che abbia realizzato una cospirazione politica contro le istituzioni della Repubblica.
Ma oggi che cosa è restato di quel terremoto? Dove sono, che cosa fanno i membri del club P2? Il più noto di essi, che vent’anni fa era soltanto un giovane, brillante palazzinaro, ora è nientemeno che presidente del Consiglio. Ecco dunque la storia dimenticata dell’”Istituzione” che ha segnato alcuni decenni della storia italiana.
Nella seconda metà degli anni Settanta qualche articolo di giornale aveva accennato all’esistenza di una loggia massonica potentissima e misteriosissima. Ombre, sospetti, dicerie? Nel 1980 il consigliere istruttore di Milano Antonio Amati deve aprire due inchieste giudiziarie: una sull’assassinio dell’avvocato milanese commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona, Giorgio Ambrosoli, ucciso a Milano l’11 luglio 1979; l’altra sullo strano rapimento di Sindona, scomparso da New York il 2 agosto 1979 e poi ricomparso il 16 ottobre. Nessuno allora avrebbe pensato che quelle inchieste avrebbero portato alla P2.
Amati assegna i due fascicoli, insieme, a due giovani magistrati. Il primo, più esperto, si chiama Giuliano Turone, baffi curati e dita sottili, irrequieto e rigorosissimo. Dopo il liceo Manzoni di Milano, dopo un anno negli Stati Uniti, dopo la laurea in legge, era stato tentato dalla carriera diplomatica. Ma aveva scelto la magistratura: perché il diplomatico deve limitarsi a eseguire la politica estera del suo governo, mentre il magistrato decide e giudica, con il solo aiuto della legge e della sua coscienza. Affascinato dalla geometria dell’indagine, aveva voluto diventare giudice istruttore, figura mista (oggi cancellata dal nuovo codice) di giudice e investigatore. Poco più che trentenne, era entrato di persona nel covo-prigione di uno dei primi sequestrati italiani, l’imprenditore Luigi Rossi di Montelera; e nel 1974 aveva fatto arrestare il responsabile, un ometto siciliano che abitava in via Ripamonti 84, a Milano, e che sulla carta d’identità aveva scritto Luciano Leggio, anche se era già noto come boss di Cosa nostra con il nome di Luciano Liggio.
Gherardo Colombo, il secondo magistrato, era invece un giovanotto che arrivava a palazzo di giustizia con i jeans e la camicia senza cravatta, e sopra gli occhiali aveva una gran corona di capelli refrattari al pettine. Era cresciuto in una grande casa sui colli della Brianza, padre medico e un po’ poeta, nonno e bisnonno avvocati. Amava i giochi di logica e il bridge. Parlava con aria apparentemente svagata, accompagnando le parole con brevi gesti secchi della mano, che poi spesso lasciava così, sospesa a mezz’aria. Per nove mesi, Turone e Colombo lavorano sodo. Macinano insieme decine e decine di interrogatori, perquisizioni, indagini bancarie. Sono letteralmente risucchiati da un’inchiesta che è un giallo appassionante, pieno di misteri e di colpi di scena. “Era un tessuto dai cento fili intrecciati“, secondo Turone, “così abbiamo cominciato col tirare i fili che sporgevano dalla trama”.
Il sequestro di Sindona: strano, con quella improbabile rivendicazione del “Gruppo proletario di eversione per una giustizia migliore”. Strani anche gli affidavit (dichiarazioni giurate) che una decina di persone invia negli Stati Uniti, ai magistrati americani, per testimoniare che il povero Sindona, che ha fatto bancarotta e ha lasciato sul lastrico centinaia di clienti, è perseguitato dai magistrati italiani soltanto per la sua fede anticomunista. Uno degli affidavit è firmato da un certo Licio Gelli. Dice: “Nella mia qualità di uomo d’affari sono conosciuto come anticomunista e sono al corrente degli attacchi dei comunisti contro Michele Sindona. E’ un bersaglio per loro e viene costantemente attaccato dalla stampa comunista. L’odio dei comunisti per Michele Sindona trova la sua origine nel fatto che egli è anticomunista e perché ha sempre appoggiato la libera impresa in un’Italia democratica“. La prosa non è un granché, ma l’ossessione anticomunista è ben presente (e allora, almeno, i comunisti c’erano davvero…).
Chi è questo Gelli?” – si chiedono Turone e Colombo. Quasi sconosciuto, allora, dal grande pubblico, era il Maestro Venerabile della loggia massonica Propaganda 2, che riuniva la crema del potere italiano. C’era la fila, per ottenere udienza da Gelli nella sua suite all’hotel Excelsior, in via Veneto, a Roma. La loggia era segreta, per non mettere in imbarazzo i suoi potenti iscritti, dispensati anche dalle ritualità massoniche. Bastava la sostanza.Gelli era arrivato al vertice della P2 dopo una onorata carriera come fascista, simpatizzante della Repubblica di Salò, doppiogiochista con la Resistenza, collaboratore dei servizi segreti inglesi e americani, infine agente segreto della Repubblica italiana. Volonteroso funzionario del Doppio Stato: soldato, come tanti altri fascisti e nazisti, arruolato nell’esercito invisibile che gli Alleati avevano approntato, dopo la vittoria contro Hitler e Missolini, per combattere la “guerra non ortodossa” contro il comunismo. Entrato nella massoneria, aveva contribuito a selezionare, dentro l’esercito, gli ufficiali anticomunisti disposti ad avventure golpiste. Nel colpo di Stato (tentato) del 1970 aveva avuto un ruolo di tutto rispetto: suo era l’incarico di entrare al Quirinale e trarre in arresto il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, quello che mandava telegrammi a raffica che finivano sempre con un bel “viva la Resistenza, viva l’Italia“. Poi il golpe non ci fu, sospeso forse dagli americani, ma la “guerra non ortodossa” continuò, con una serie di stragi che insanguinarono l’Italia. Fino al 1974, anno di svolta. Allora la strategia della guerra segreta contro il comunismo cambiò: basta con la contrapposizione diretta, con i progetti apertamente golpisti, sostituiti da una più flessibile occupazione, attraverso uomini fidati, di tutti gli ambiti della società, di tutti i centri di potere. La massoneria (o almeno una parte di essa) fornisce le strutture e le coperture necessarie a organizzare questo club del Doppio Stato, questo circolo dell’oltranzismo atlantico. Nasce la P2 di Licio Gelli. In cui poi, all’italiana, entrano anche (e per alcuni soprattutto) le protezioni, le carriere, gli affari e gli affarucci. Ma tutto ciò, tra il 1980 e il 1981, Turone e Colombo ancora non lo sapevano, non lo immaginavano neanche. I due andavano avanti per la loro strada, a districare i misteri del caso Sindona.Scoprono che Sindona non è stato rapito, ma ha organizzato una messa in scena per sparire dagli Stati Uniti e arrivare in Italia, in Sicilia. Scoprono che è lui a trattare il salvataggio delle sue banche con Giulio Andreotti, a minacciare il presidente della Mediobanca Enrico Cuccia (che si oppone al piano di risanamento), è lui a far uccidere Giorgio Ambrosoli, nella notte dell’11 luglio 1979, con tre colpi di 357 magnum sparati al petto da un sicario che viene dagli Stati Uniti. A ospitare Sindona a Palermo, in quell’estate di scirocco e di sangue, è un medico italoamericano: Joseph Miceli Crimi, massone, esperto di riti esoterici e di chirurgie plastiche. è lui che spara alla gamba del banchiere, con sapienza clinica, per cercare di rendere credibile il rapimento. I due giudici istruttori gli sequestrano alcune carte e, tra queste, uno stupido biglietto ferroviario Palermo-Arezzo, usato da Miceli Crimi nell’estate del 1979. Domanda: perché un viaggio dalla Sicilia ad Arezzo? Risposta: “Per andare dal dentista presso cui ero in cura“. Fantasiosa, ma i due milanesi non abboccano. Miceli Crimi, messo alle strette, ammette: ma sì, sono andato da un certo Licio Gelli, per discutere con lui la situazione di Sindona. Questo Gelli comincia proprio a incuriosire i due giudici istruttori. I personaggi che si muovono attorno a Sindona e si danno da fare per salvarlo, scoprono Turone e Colombo, finiscono tutti per arrivare a Gelli: Rodolfo Guzzi, l’avvocato del bancarottiere; Pier Sandro Magnoni, suo genero; Philip Guarino e Paul Rao, due massoni che incontrano il Venerabile poche ore dopo essere stati ricevuti da Giulio Andreotti. Ecco perché, nel marzo 1981, i giudici milanesi ordinano una perquisizione di tutti gli indirizzi del Venerabile. “Cautela assoluta“, ricorda Colombo, “avevamo intuito che per ottenere risultati dovevamo procedere con la massima segretezza“. La sera di lunedì 16 marzo 1981 una sessantina di agenti della Guardia di finanza si muove da Milano verso i quattro indirizzi di Gelli annotati su una agenda di Sindona sequestrata al banchiere dalla polizia di New York: villa Wanda di Arezzo, l’abitazione privata; la suite all’Excelsior dove riceveva autorità, politici, postulanti; un’azienda di Frosinone; e gli uffici di una fabbrica d’abbigliamento, la Giole di Castiglion Fibocchi.L’incarico delle perquisizioni è affidato a un uomo di cui Turone e Colombo conoscono la lealtà istituzionale, il colonnello della Guardia di finanza Vincenzo Bianchi. Ha l’ordine di agire senza informare nessuno e senza avere alcun contatto con le autorità locali, i carabinieri, la polizia, la magistratura del posto, neppure i comandi della Guardia di finanza. I suoi finanzieri, arrivati in Toscana, non passano la notte nella caserma di Arezzo, ma si disperdono in diverse località lì attorno. Per tutti, l’appuntamento è all’alba del 17 marzo.
Scatta la perquisizione. Nessun risultato a Roma. Niente a villa Wanda. L’azienda di Frosinone è un vecchio indirizzo. Alla Giole, invece, c’è una montagna di carte. Gelli non si trova, è a Montevideo. Ma la sua segretaria, Carla, protegge con vigore i documenti stipati nella scrivania, nei cassetti, nella cassaforte, in una valigia… Nella cassaforte ci sono gli elenchi della loggia segreta. “Sequestrate tutto“, ordinano, per telefono, i giudici istruttori. La perquisizione è ancora in corso quando a Bianchi arriva via radio una chiamata del generale Orazio Giannini, comandante della Guardia di finanza: c’è anche il suo nome, in quegli elenchi, come quello del suo predecessore, il generale Raffaele Giudice, come quello del capo di stato maggiore della Finanza, il generale Donato Lo Prete. E il comandante delle Fiamme gialle di Arezzo, e una folla di generali, colonnelli, maggiori…Tutte le carte sono portate a Milano. Turone e Colombo le catalogano, personalmente, pagina per pagina. Ne fanno due copie. L’originale entra nel fascicolo dell’inchiesta; la prima copia è affidata ai finanzieri, con l’incarico di conservarla in un luogo sconosciuto agli stessi giudici; la seconda è nascosta, sotto una falsa intestazione (“Formazioni comuniste combattenti”) tra i fascicoli di un collega di cui i due si fidano, il giudice Pietro Forno. Non si sa mai.
Fuori dal palazzo di giustizia di Milano, intanto, nessuno sa delle carte sequestrate a Gelli. Eppure qualcuno sta lavorando febbrilmente per parare il colpo. La notizia comincia a trapelare. La dà, per primo, il telegiornale Rai la sera del 20 marzo. Ma non è chiaro quali documenti siano stati trovati dai giudici. Il giorno dopo, sabato 21 marzo, il Giornale (allora diretto da Indro Montanelli) scrive: “Nell’ambito delle indagini per l’affare Sindona, stasera si è appresa una doppia operazione compiuta dalla magistratura di Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di Licio Gelli, Venerabile Maestro della loggia massonica P2. Per conto dei giudici milanesi l’intervento sarebbe stato operato dalla Guardia di finanza, mentre Roma avrebbe partecipato agli accertamenti attraverso il sostituto procuratore della Repubblica Sica“. Strana notizia: il ritrovamento non è avvenuto a villa Wanda ma alla Giole di Castiglion Fibocchi; e soprattutto Domenico Sica, detto “Rubamazzo“, per ora non c’entra nulla. Ma basteranno poche settimane e Roma arriverà ad avverare la profezia del Giornale e a strappare l’indagine ai magistrati milanesi.Turone e Colombo, consci del peso istituzionale della loro scoperta, decidono che è loro dovere informare il capo dello Stato: ma il presidente Sandro Pertini è all’estero, così ripiegano sul capo del governo, Arnaldo Forlani. Si recano a Roma il 25 marzo, l’appuntamento è fissato alle ore 16 a Palazzo Madama. Aspettano per due ore. Poi la segreteria di Forlani comunica che c’è stato un equivoco, che il presidente li aspetta a Palazzo Chigi. I due giudici si spostano lì. Ad accoglierli è il capo di gabinetto di Forlani. “Ci siamo guardati negli occhi in silenzio“, ricorda Colombo, “il funzionario davanti a noi era il prefetto Mario Semprini, tessera P2 1637“. Forlani è cortese, chiede se le carte trovate possono essere non autentiche. I due giudici gli mostrano una firma autografa del ministro della Giustizia Adolfo Sarti sulla domanda d’iscrizione alla loggia. Chiedono: “Signor presidente, avrà certamente un documento controfirmato dal suo ministro Guardasigilli…“. Forlani ne prende uno, confronta i due fogli, si convince. “Datemi tempo di riflettere“, conclude Forlani. “Di solito offro agli ospiti di riguardo un aereo dei servizi per tornare a casa. Mi pare che questa volta non sia il caso“.
Forlani tira in lungo. Non vuole prendersi la responsabilità di rendere pubblici gli elenchi. Cerca di scaricarla sui giudici milanesi. Sui giornali del 20 maggio i titoli confermano quella sensazione: “Forlani: spetta ai giudici togliere il segreto sulla P2“. Turone, Colombo e il capo dell’ufficio Amati inviano immediatamente una lettera al presidente del Consiglio, in cui sostengono che sono coperti dal segreto istruttorio i verbali delle deposizioni dei testimoni che stanno sfilando davanti a loro, ma non “il restante materiale trasmesso. Forlani capisce che non può più aspettare. Le liste di Gelli sono rese pubbliche.
Oltre agli elenchi degli affiliati e alla documentazione sulla loggia, tra le carte sequestrate vi sono 33 buste sigillate con intestazioni diverse: “Accordo Eni-Petromin“, “Calvi Roberto vertenza con Banca d’Italia“, “Documentazione per la definizione del gruppo Rizzoli“, “On. Claudio Martelli“…
C’erano già, in quelle carte, i segreti di Tangentopoli, del Conto Protezione e di tanto altro ancora. Ma i tempi non erano maturi. Da Roma si muovono il giudice istruttore Domenico Sica (detto “Rubamazzo”) e il procuratore della Repubblica Achille Gallucci. Sollevano il conflitto di competenza e la Cassazione, il 2 settembre 1981, strappa l’inchiesta a Milano per affidarla a Roma. Non sviluppata, l’indagine si spegne. “Mi è arrivata sulla scrivania già morta“, dice Elisabetta Cesqui, il pubblico ministero che eredita l’indagine. L’accusa di cospirazione politica contro le istituzioni della Repubblica mediante associazione cade: tutti i rinviati a giudizio (pochi: qualche capo dei 17 gruppi in cui la P2 era divisa, più Gelli e i responsabili dei servizi segreti) sono prosciolti, e comunque il processo arriva in Cassazione quando ormai è troppo tardi e per tutti scatta la prescrizione.
Più utile il lavoro della Commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi, che dichiara le liste della P2, con 972 nomi, “autentiche” e “attendibili”, ma incomplete. E con anni di lavoro produce un materiale immenso e prezioso, la documentazione di come funzionava una potentissima macchina di eversione e di potere. Ma nel 1981 le speranze – o le paure – erano altre: una parte del Paese sperava che lo scandalo P2 avviasse il rinnovamento della vita politica e istituzionale; un’altra temeva che il proprio potere si incrinasse per sempre. Sbagliavano gli uni e gli altri.
Oggi il più noto degli iscritti alla P2 è Silvio Berlusconi, tessera numero 1816. Per la P2 Berlusconi ha subito la sua prima condanna, ormai definitiva: per falsa testimonianza. Nel 1990, a Venezia, viene infatti giudicato colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla loggia. L’anno prima, però, c’era stata una provvidenziale amnistia.
Quando parla della P2, Berlusconi se la cava, di solito ed al solito, con qualche battuta. Eppure l’iscrizione alla loggia è stata determinante per i suoi primi affari immobiliari. Per esempio per ottenere credito dalla Banca nazionale del lavoro (controllata dalla P2, con ben otto alti dirigenti affiliati) e dal Monte dei Paschi di Siena (era piduista il direttore generale Giovanni Cresti). Conclude la Commissione Anselmi: gli imprenditori Silvio Berlusconi e Giovanni Fabbri (il re della carta) “trovarono appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio“. Ma poi, fatte le case, bisogna venderle. E non fu facile, per Berlusconi. Lo soccorse, agli inizi della sua carriera di immobiliarista, un “fratello” della loggia segreta, il napoletano Ferruccio De Lorenzo, già sottosegretario liberale in un governo Andreotti e padre di Francesco, futuro ministro della Sanità e imputato di Mani pulite: Ferruccio De Lorenzo acquistò, come presidente dell’Enpam (l’Ente nazionale previdenza e assistenza dei medici italiani) prima due hotel a Segrate, poi decine di appartamenti di Milano 2. L’Enpam decise poi di affidare a Berlusconi anche la gestione del teatro Manzoni di Milano, controllato dall’ente.
Quando Gelli parla di Berlusconi, è lapidario: “Ha preso il nostro Piano di rinascita e lo ha copiato quasi tutto“, dichiara all’Indipendente nel febbraio 1996. Il Piano di rinascita democratica era il programma politico della P2. Fu sequestrato il 4 luglio 1981 all’aeroporto di Fiumicino, nel doppiofondo di una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia del Venerabile.
Riletto oggi, risulta profetico.
Prevede, infatti, di “usare gli strumenti finanziari per l’immediata nascita di due movimenti l’uno sulla sinistra e l’altro sulla destra“. Tali movimenti “dovrebbero essere fondati da altrettanti club promotori“. Nell’attesa, il Piano suggerisce che con circa 10 miliardi è possibile “inserirsi nell’attuale sistema di tesseramento della Dc per acquistare il partito“. Con “un costo aggiuntivo dai 5 ai 10 miliardi” si potrebbe poi “provocare la scissione e la nascita di una libera confederazione sindacale“. Per quanto riguarda la stampa, “occorrerà redigere un elenco di almeno due o tre elementi per ciascun quotidiano e periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro“; “ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di simpatizzare per gli esponenti politici come sopra”. Poi bisognerà: “acquisire alcuni settimanali di battaglia“, “coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso un’agenzia centralizzata”, “coordinare molte tv via cavo con l’agenzia per la stampa locale”, “dissolvere la Rai in nome della libertà d’antenna”; “punto chiave è l’immediata costituzione della tv via cavo da impiantare a catena in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del Paese”.
Tecnologia a parte: preveggente, no?
La giustizia va ricondotta “alla sua tradizionale funzione di equilibrio della società e non già di eversione”. Per questo, è necessaria la separazione delle carriere del pubblico ministero e dei giudici, “l’istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti“, la “riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento“.

Non è, parola per parola, la riforma approvata dal Parlamento firmata con lo pseudonimo di Castelli?

Che fine hanno fatto gli altri “fratelli” di loggia? Alcuni hanno fatto proprio una brutta fine. Sindona, dopo essere stato condannato per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, è morto in carcere, per una tazzina di caffè al veleno. Il suo successore nella finanza d’avventura, Roberto Calvi, tessera numero 1624, ha gettato la più grande banca italiana, il Banco Ambrosiano, nelle braccia della P2 che gli ha sottratto un fiume di miliardi e l’ha fatto finire in bancarotta; alla fine, il 18 giugno 1982, è stato trovato penzolante sutto il ponte dei Frati neri, a Londra. Mino Pecorelli, tessera 1750, giornalista in contatto con i servizi segreti, direttore di Op e piduista anomalo che voleva giocare in proprio, è stato crivellato di colpi nella sua automobile, il 20 marzo 1979.
Gelli è stato condannato, poi prosciolto in cassazione per avvenuta prescrizione, per il crac del Banco Ambrosiano. Molti degli affiliati, il nocciolo duro del club dell’oltranzismo atlantico, sono stati coinvolti in vicende di eversione, stragi, tentati colpi di Stato, depistaggi. Così Vito Miceli, Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Giuseppe Santovito, Giovanni Fanelli, Antonio Viezzer, Umberto Federico D’Amato, Giovanbattista Palumbo, Pietro Musumeci, Elio Cioppa, Manlio Del Gaudio, Giovanni Allavena, Giovanni Alliata di Montereale, Giulio Caradonna, Edgardo Sogno… Ci vorrebbe almeno un libro per ciascuno, per raccontare la multiforme attività di questi fedeli servitori del Doppio Stato.
Pochi del club P2 sono stati messi davvero fuori gioco dallo scandalo che seguì la pubblicazione degli elenchi. I magistrati (unica categoria che reagì con decisione) furono giudicati e sanzionati dal Consiglio superiore della magistratura. Ma ciò non toglie che uno dei magistrati iscritti alla P2, Giuseppe Renato Croce, tessera numero 2071, oggi giudice per le indagini preliminari a Roma, con arzigogoli procedurali stia dando ragione a Marcello Dell’Utri in una delle tante contese giudiziarie che il braccio destro di Berlusconi ha aperte.
Molti dei piduisti sono stati messi da parte dagli anni e dall’età.
Ma chi resiste all’azione del ciclo biologico non se la cava poi tanto male. Tra i giornalisti (di allora), Gustavo Selva è parlamentare di An; Maurizio Costanzo è, in sostanza e con la consorte, Canale 5 e uomo politicamente trasversale, anche se sempre dalla parte di Berlusconi nei momenti cruciali; Massimo Donelli è direttore della nuova tv del Sole 24 ore. Roberto Gervaso continua a scrivere un fiume di articoli e di libri e nessuno si ricorda più di una simpatica lettera che inviò, tanto tempo fa, a Gelli: “Caro Licio, ho chiesto a Di Bella (direttore del Corriere della sera quando era nelle mani della P2, ndr) di farmi collaborare. è bene che tutti capiscano che bisogna premiare gli amici. Oggi Di Bella parlerà della mia collaborazione con Tassan Din (direttore generale del Corriere, piduista come l’editore del Corriere, Angelo Rizzoli, ndr). Vedi di fare, se puoi, una telefonata a Tassan Din, affinchè non mi metta i bastoni tra le ruote“. Più defilato Paolo Mosca, ex direttore della Domenica del Corriere. Gino Nebiolo, all’epoca direttore del Tg1, è stato mandato a dirigere la sede Rai di Montevideo (una capitale della P2) e oggi scrive sul Foglio di Giuliano Ferrara. Franco Colombo, ex corrispondente della Rai a Parigi e aspirante piduista, oggi ha cambiato mestiere: è vicepresidente della società del Traforo del Monte Bianco e si sta dando molto da fare per gli appalti che devono riaprire il tunnel. Alberto Sensini (aspirante piduista, come Colombo) scrive di politica sui giornali.
Tra i politici, Pietro Longo, segretario del Partito socialdemocratico, divenne il simbolo negativo del piduista con cappuccio. Ma a tanti altri è andata meglio. Publio Fiori (tessera 1878), ex deputato democristiano, è trasmigrato in An e nel 1994 è diventato ministro di Berlusconi. Una poltrona di ministro è toccata, durante il governo Berlusconi, anche ad Antonio Martino (anch’egli a Gelli aveva solo presentato la domanda d’iscrizione). Invece Duilio Poggiolini (tessera 2247), ex ministro democristiano della Sanità, ha avuto la carriera stroncata non dalla P2, ma dai lingotti d’oro di Tangentopoli trovati nel pouf del salotto. Massimo De Carolis (tessera P2 1815, solo un numero in meno di quella di Berlusconi), negli anni Settanta era democristiano e leader della “Maggioranza silenziosa”, oggi è tornato alla politica sotto le bandiere di Forza Italia e grazie al rapporto diretto con Berlusconi ha ottenuto la presidenza del Consiglio comunale di Milano ed un seggio in Parlamento. Ha dovuto abbandonare entrambi, dietro la ferma insistenza del sindaco Gabriele Albertini, dopo essere stato coinvolto in alcuni scandali. E’ accusato, tra l’altro, di aver chiesto 200 milioni per rivelare notizie riservate a una azienda partecipante a una gara per un appalto a Milano. Ma il fatto curioso è che, insieme a De Carolis, nel processo in corso a Milano sia coinvolta un’altra vecchia conoscenza della P2: Luigi Franconi (tessera P2 numero 1778). I rapporti solidi resistono nel tempo.
Un banchiere iscritto alla P2, certo meno noto di Sindona e Calvi, era Antonio D’Alì, proprietario della Banca Sicula e datore di lavoro di boss di mafia come i Messina Denaro. Oggi ha passato la mano al figlio, Antonio D’Alì jr, eletto senatore a Trapani nelle liste di Forza Italia. Angelo Rizzoli, che si fece sfilare di mano il Corriere dalla compagnia della P2, oggi fa il produttore cinematografico. Roberto Memmo (tessera 1651), finanziere che tanto si diede da fare per salvare Sindona, oggi è buon amico di Marcello Dell’Utri, di Cesare Previti e del giudice Renato Squillante, che incontrava insieme, e dirige la Fondazione Memmo per l’arte e la cultura, con sede a Roma nel Palazzo Ruspoli. Rolando Picchioni (tessera 2095), torinese, ex deputato dc, coinvolto (ma assolto) nello scandalo petroli, oggi è in area Udeur ed è segretario generale del Salone del libro di Torino. Giancarlo Elia Valori, unico caso di piduista espulso dalla loggia perché faceva troppa concorrenza al Venerabile Maestro, oggi è presidente dell’Associazione industriali di Roma, infaticabile scrittore di libri e instancabile tessitore di rapporti e di alleanze. Vittorio Emanuele di Savoia (tessera 1621) è un curioso caso di uomo off-shore: anche quando non poteva rientrare in Italia, faceva affari, seppure attraverso società estere. In pratica, non ne è mai stato fuori, a giudicare dai suoi affari e traffici (d’armi): nei decenni scorsi è stato, anche grazie alla sua integrazione nel club P2, mediatore d’affari all’estero per conto di aziende italiane (Agusta) e addirittura di Stato (Italimpianti, Condotte…), quello stesso Stato sul cui territorio non poteva mettere piede. Di Berlusconi ha detto (era il 1994): “è un buon manager, può rimettere ordine nell’economia italiana“. Come? Per esempio “cancellando quel disastro” che è “lo Statuto dei lavoratori, con il divieto di licenziamento“. Apprezzamenti naturali, tra compagni di loggia. Ma con un finale obbligato per il principe: “Io? Non faccio politica“. Vittorio Emanuele non vota, ma c’è da scommetterci che tifa per Berlusconi, che ha potuto farlo finalmente rientrare in Italia, questa volta anche fisicamente.

Vent’anni dopo, in Italia è tempo di revisioni. Anche sulla P2. E’ stato un legittimo club di amiconi, magari con qualcuno che ne approfittava un po’ per fare affari. Gelli? Un abile traffichino che millantava poteri che in realtà non aveva. Ma era proprio questo, la P2? Vista con distacco, appare invece il luogo più attivo per l’elaborazione di strategie di potere del grande partito atlantico in Italia, almeno tra il 1974 e il 1981. Centro d’incontro tra politica, affari, ambienti militari. Nella loggia segreta è confluito il partito del golpe, reduce della stagione delle stragi 1969-74, ma con una nuova strategia, più flessibile, più attenta alla politica. E ai soldi, che possono comprarla: come suggerisce, appunto, il Piano di rinascita.

E oggi? La società è cambiata. Anche gli uomini alla ribalta sono, in buona parte, diversi. Ma nella storia italiana non si butta via niente, c’è una continuità di fondo con il peggio delle nostre vicende, fatte di un anticomunismo eversivo, bancarotte e spoliazioni di denaro pubblico, politica corrotta, stragi, morti ammazzati, rapporti inconfessabili con le organizzazioni criminali. Il passato, il tremendo passato italiano, deve sempre restare non del tutto chiarito, perché i dossier, gli uomini, i segreti, i ricatti che da quel passato provengono possano essere riciclati nel futuro. Da questo punto di vista, la parabola di Silvio Berlusconi, uomo “nuovissimo” che viene dal passato vecchissimo di Gelli e affiliati, è la parabola dell’Italia.

In Moody stat virtus

15/01/2006 alle 2:27 PM | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

Nella storia del rock britannico, oltre i nomi sacri, nel tempo si sono di volta in volta trascurati gruppi che hanno avuto l’unica sfortuna di essere contemporanei con i “grandi?. Tutti, di istinto, se pensiamo al periodo d’oro tra i Sessanta ed i Settanta, pensiamo ad una miriade di gruppi, ma per quanti ne ricordiamo, altrettanti ne scordiamo. Magari anche gruppi di cui abbiamo un disco in casa.
E’ quello che succede ad esempio con i Moody Blues, il cui nome viene in sostanza ricondotto ad un singolo, “Nights in white satin?, celebre anche dalle nostre parti per una sublime versione italiana dei Nomadi (“Ho difeso il mio amore?).

Purtroppo i Moody Blues sono sempre stati trattati male dalla critica più impegnata che li ha giudicati come delle (brutte) copie dei Beatles più romantici. In realtà il complesso ha svolto una giusta funzione di mezzo tra facile ascolto e rock più impegnato, con metodi di lavoro innovativi e (soprattutto) l’introduzione del mellotron sulla scena musicale.
Ed è incredibile come, per compilare queste note, le ricerche su Google abbiano prodotto una sconcertante, deludente scarsità di informazioni…

I Moody Blues nascono a Birmingham nel 1964, come complesso specializzato in rhythm and blues. “Go now? è il primo grande successo, e dà anche il nome al primo album di notorietà internazionale. Siamo nel 1965: finora la band ha pubblicato dei singoli che si sono affacciati anche nelle classifiche, singoli che saranno poi inclusi in una raccolta (“The Magnificent?) che riascoltata oggi suona ancora molto sixties. Ma fin qui, in sostanza un gruppo come tanti, il classico complessino senza pretese e per la cui musica viene creato il concetto di easy listening.

La svolta arriva nel 1967: al tastierista Mike Pinder ed al flautista Ray Thomas si affiancano il chitarrista Justin Hayward ed il bassista John Lodge. In concerto, sull’esempio della tradizione dei gruppi più famosi (non solo Beatles, ma anche Who e per certi versi i Beach Boys) cominciano ad essere rivisitati i vecchi brani con maggior risalto all’armonia corale delle quattro voci (oltretutto, singolarmente piuttosto belle, nulla di clamoroso, come insegnerà la futura svolta solistica, ma sicuramente molto equilibrate nell’insieme). Insieme con questa caratteristica, il posto nella storia musicale arriva grazie al bizzarro produttore, Peter Knight, che diventa per loro quello che fu George Martin per i Beatles: sua l’idea di investire una montagna di soldi per acquistare e fare usare anche in concerto uno strumento appena inventato, il mellotron, che riesce a riprodurre l’impatto e le sonorità di una intera orchestra. Esce quindi l’album “Days Of Future Past?: uscito nei negozi una settimana prima di “A whiter shade of pale? dei Procol Harum, la pietra miliare del rock romantico inglese, suona come se durante un concerto pop facessero irruzione dei madrigalisti rinascimentali appropriandosi delle canzoni e dell’orchestra.
Dedicato alle varie ore della giornata, trova il suo momento di gloria in “Nights In White Satin?, appunto, storia dell’omicidio di una prostituta da parte di un cliente innamorato.
Quasi un gospel che a distanza di quasi quarant’anni suona tuttora come uno dei pezzi rock più belli mai scritti, ma è notevole anche “Tuesday Afternoon?, primo singolo del gruppo a scalare le classifiche Usa.
L’ anno successivo è la volta di “In Search Of The Lost Chord?, un album a tema dedicato alla meditazione trascendentale, alla filosofia orientale ed alla emergente cultura psichedelica. Album stroncato dalla critica, ovviamente: viene giudicato troppo pretenzioso e “troppo noioso, un disco da quarantenni con smanie classicheggianti (…) I M.B. sono troppo giovani per essere dei Mozart e troppo vecchi rispetto ai ragazzi che comprano dischi? (Rolling Stone, Marzo 1968).

Incuranti della critica, fortunatamente, sorretti dalle proprie spalle larghe e dalla testardaggine (ben supportata finanziariamente, peraltro) di Peter Knight, i Moody preparano immediatamente un nuovo album, “On The Threshold Of A Dream?. Album davvero molto bello, col sapiente uso del mellotron a dare ariosità al tutto, impasti vocali perfezionatissimi e oltre la soglia della perfezione, almeno due canzoni sin troppo facili da imparare a memoria (“Send me no wine? e “Never comes the day?), un altro paio sin troppo facili da assorbire (“Lazy days? e “So deep within you!?), “Dear diary? che richiama sin troppo atmosfere lennoniane.
Una giusta via di mezzo tra il clima dei gruppi musicalmente più leggeri (genere Hollies e Bee Gees su tutti) e quello che caratterizzerà, tra breve, i gruppi più progressivi (penso ai neonati King Crimson). Leggende metropolitane sul lavoro di studio, coi genitori di Hayward che si rivolgono alla polizia perché non hanno notizie del figlio per una settimana, ore ed ore di incisioni, sovraincisioni, reincisioni, peraltro ben annaffiate da litri di birra e stecche di sigarette.
Enorme successo, finalmente, di critica e pubblico, che spiana la strada per una presenza pressocchè fissa nelle classifiche degli anni successivi, più che altro, fatto strano, in quelle dei singoli: comunque le note che restano impresse sono quelle di canzoni molto ritmate come “Question?, tratta da “A question of balance? del 1970, e “I’m just a singer?, sull’album “Seventh Sojourn? del 1972. In mezzo, album ciclostilati come “To Our Children’s Children’s Children? ed “Every Good Boy Deserves Favour?, non brutti ma superflui.
Dopo, la storia racconta dello scioglimento del gruppo, un ritorno nell’ 81 con un album da radio FM (“Octave?), preludio ad una serie di album assolutamente inutili.
La loro importanza musicale risiede, in sostanza, nell’aver proposto prima di altri uno stile musicale assolutamente gradevole, con una sapiente mescolanza di elementi i più vari: sonorità quasi gospel, richiami medievali, impasti vocali westcoastiani, lezioni beatlesiane, ben prima del rock romantico. Di sicuro non è rock scatenato, quello fatto di chitarre tiratissime e batterie travolgenti, di pianismo liquido e voci potenti. Piuttosto, musica orecchiabile, piacevole e poco impegnativa dal punto di vista dell’ascolto, atmosfere eleganti e raffinate.

Insomma, se vi capita uno dei tre album del periodo d’oro, “Days…?, “On a thresold..? o “In a search..? (tutti rieditati e rimasterizzati, reperibili intorno ai 10 euro), o avete scoperto in tempi recenti i Coldplay, fateci tranquillamente un pensiero…

Stefano e Armenia

04/12/2005 alle 3:02 PM | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

Qualche giorno fa una delicatissima mail di Gugl (Stefano Guglielmin), una persona squisita che viene spesso qui sul fiume a lanciare sassolini, mi ha regalato l’emozione di scoprire una rivista cartacea e on line di Milano.

“Qui. Appunti dal presente?

Viene pubblicata ogni 4 mesi e, sul n.11  di giugno 2005, Stefano ha scritto il suo diario di viaggio in Armenia. Ne pubblico qui, col consenso dell’Autore, uno stralcio.

La versione integrale la trovate al link

http://www.quiappuntidalpresente.it/numeroundici.html#diaricinque

Erevan, Armenia, 24 marzo
La capitale armena possiede due ombelichi: il primo s’infossa nell’orribile vuoto lasciato dal genocidio, tutto pietra lavica adesso, al centro di una collina alberata, visibile da ogni lato; il secondo splende inaccessibile, due passi dentro il confine turco, con i suoi cinquemila metri di luce e l’arca dimenticata sotto i sassi. (…) Il resto della città ha corpo verticale, rosa per il tufo, e grigio come ogni città passata al setaccio dell’architettura sovietica. Da quando l’Unione è dirupata, le fabbriche arrugginiscono, e così la centrale atomica, sul bordo petroso della periferia, che fuma e spande energia. Quando tentarono di spegnerla, perché obsoleta e maltenuta, morirono di freddo e di fame quasi quindicimila persone, mentre i cani si radunarono in branchi, per cacciare i vivi e i morti. (…)

Erevan, Armenia, 25 marzo, ore 13,38
Combustibile è anche l’Armenia per i Paesi occidentali e per Vladimir Putin, che ora sfreccia sulla strada tuttabuche, scortato e salutato da poliziotti sull’attenti; il popolo si distrae, mangia dolci fatti con mosto condensato e noci, scambia due parole sulla buona stagione che tarda, strofina con gesto elegante il fazzoletto lindo sulle scarpe impolverate o cammina su tacchi a spillo anche con meno dieci e la neve ovunque.

Echmiadzin, Armenia, 27 marzo, Pasqua
Nel 301 San Gregorio, prigioniero di re Trinitate III, salvò quest’ultimo dalla follia. Il re si convertì, facendo di Echmiadzin il vaticano del primo Paese cattolico. Il resto è dolore: ecco i persiani, i turchi selgiuchidi, i mongoli, i turchi ottomani e poi la Russia zarista e, ancora, i ‘giovani turchi’: ecco il 1915 e un milione e mezzo di morti bianche. Hitler, con gli ebrei, sperava lo stesso: l’uomo dimentica, disse, ha ben altro da fare: cucinare, per esempio, e lavorare, costruire ponti, pensare al futuro.
Qui, dentro chiesa, il futuro odora d’incenso e veste colorato. (…)

Spitak, Armenia, 28 marzo
Ricostruito dopo il terremoto del 1988, questo villaggio montano allinea tetti svizzeri, pareti sottili, un freddo cane e una scuola italiana, voluta da un siciliano operoso, nella quale maestri ceramisti venuti da fuori insegnano ai ragazzi l’arte dei vasai. (…) Il nostro autista ci mostra con rammarico il patentino di arbitro internazionale di calcio: un piccolo sgarbo contro la squadra del presidente, qualcosa come un rigore non dato o altra inezia, lo ha messo fuori gioco, forse per sempre. (…)

Erevan, Armenia, 31 marzo
La cosa che colpisce, dopo aver visitato una decina di monasteri sparsi nei posti più isolati dell’Armenia, è la loro uniformità costruttiva, il monotono succedersi degli archi e delle colonne, il ripetersi delle volte e delle vuote superfici grigie. A sorprendermi felicemente è altro; per esempio il fatto che gli edifici sacri, affinché non fossero distrutti dai popoli invasori, portassero inscritti nelle pietre simboli nemici: bassorilievi di madonne dalle fattezze mongole, ricami persiani, guglie islamiche, e persino emblemi ebraici: “Per precauzione” spiega la guida locale, ex soldato russo o chissà, perfetta nel mescolare storia e leggenda. (…)

Erevan, Armenia, 1 aprile
(…) All’Old Erevan, accompagnata da tamburi, ance dei dudùk e dal canto di un Orfeo baffuto, danza Euridice. Si chiese un tempo Rilke: “Canto è esistenza. Al Dio facile cosa. / Ma noi quando siamo?”. E rispose: “Danzatrice, tu che ogni cosa effimera / traducevi nel passo: come sapesti offrirla. / E il vortice finale, questo albero nato dal movimento, / non chiuse intero in sé il ciclo dell’anno?”.

Questa sera, qui alla Vecchia Erevan, cenando fra amici, il senso d’ogni cosa si dispiega e di nulla d’altro ho bisogno.

**********

Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio, dove vive. Insegna lettere in un liceo artistico. Ha pubblicato alcune raccolte poetiche (l’ultima è Come a beato confine, Book Editore, Castel Maggiore 2003) e il saggio Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento, Anterem, Verona 2001.

Inutile che sottolinei quanto sia orgoglioso di avere un contatto con una persona così in gamba.

 

Bollettino per i naviganti

16/11/2005 alle 9:06 PM | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

Come PREVENIRE ADDEBITI INDESIDERATI IN BOLLETTA (dovuti ai dialers)

I DIALERS sono dei files eseguibili (di solito con estensione .EXE ) che disconnettono il modem dal proprio provider ricollegandolo ad un altro provider tramite una connessione telefonica ad elevata tariffazione.
I DIALERS vengono di solito inviati da siti che rientrano in una delle seguenti categorie:

* siti web che offrono loghi o suonerie
* siti web che offrono giochi per PC e PlayStation
* siti web pornografici
* siti web che offrono sfondi per il computer
* siti web che offrono viaggi a prezzi scontati
* siti web che offrono musica MP3 e filmati

Possono talora essere inseriti anche negli allegati eseguibili di e-mail inviate da un fornitore dei predetti servizi.
I DIALERS, che tipicamente funzionano in ambiente Windows, possono colpire TUTTI COLORO CHE NAVIGANO CON UN MODEM ANALOGICO O ISDN (il 75% dei navigatori italiani) in quanto solo in questo caso è possibile dirottare il collegamento verso un altro provider, quindi se si naviga con una connessione permanente (es. ADSL, linea dedicata o FASTWEB) non si corre alcun rischio.
Per prevenire collegamenti indesiderati occorre adottare i seguenti provvedimenti:

Configurare il programma di navigazione (browser), usualmente Internet Explorer in modo tale da evitare lo scaricamento (dowload) automatico e l’esecuzione di programmi. Per fare ciò, con rifermento ad Internet Explorer, occorre:
Cliccare su STRUMENTI => OPZIONI INTERNET => Selezionare la cartella PROTEZIONE =>scegliere LIVELLO PERSONALIZZATO
Nella finestra che appare alla voce ESEGUI CONTROLLI e PLUG-IN ACTIVEX => selezionare CHIEDI CONFERMA (in modo da non precludersi tale possibilità nel caso di siti ritenuti affidabili)
Analogamente per le voci ESEGUI SCRIPT CONTROLLI ACTIVEX CONTRASSEGNATI COME SICURI ed ESEGUI SCRIPT CONTROLLI ACTIVEX NON CONTRASSEGNATI COME SICURI. A tal proposito ricordiamo che la dizione “contrassegnati come sicuri” si riferisce all’autenticità del componente garantito da un ente di certificazione che rilascia una firma elettronica ma che nulla garantisce circa le finalità dello script stesso.
Dopo aver adottato questa precauzione, quando si clicca su uno dei links presenti in un sito e viene chiesto di scaricare un file con estensione .exe per usufruire dei servizi proposti, nel caso il sito appartenga ad una delle predette categorie, ci sono ottime probabilità CHE SI TRATTI DI UN DIALER. Avendo adottato la configurazione precedentemente indicata sarà possibile evitare lo scaricamento o la memorizzazione del file (basta in questo caso, cliccare sull’opzione “annulla” per proteggersi).
E’ molto raro, ma può succedere (è successo) che il sito offra realmente un software o un libro elettronico gratuito (con estensione .exe). Tuttavia se il sito offre uno dei servizi sopra indicati ma NON INDICA NESSUNA RAGIONE SOCIALE, NUMERO DI TELEFONO O ALTRE INFORMAZIONI UTILI per riconoscere e contattare il titolare, allora si è in un sito-dialer al 100% (il fatto che non mettano la propria ragione sociale e il numero di telefono significa proprio che hanno qualcosa da nascondere: non scaricare nulla ed uscire subito da quel sito).

Tuttavia questi provvedimenti possono non essere sufficienti a risolvere radicalmente il problema per cui, per maggior sicurezza, occorre adottare anche le regole di protezione appresso specificate.

REGOLE DI PROTEZIONE
Se il computer possiede un MODEM ANALOGICO O ISDN allora fare molta attenzione a queste regole. Se invece si ha solo un MODEM ADSL o una connessione permanente a internet (CDN o FASTWEB) non si è a rischio ma è comunque opportuno seguire in via cautelativa le seguenti regole.
Anche se ci si ritiene un vero esperto di internet, tenere presente che il computer potrebbe essere usato da qualcun altro (figli o amici o colleghi) che potrebbe mettere a rischio la connessione.

REGOLA 1
– Chiedere la chiave di disabilitazione alle chiamate ai numeri ad elevata tariffazione al servizio clienti del proprio operatore (187 per la Telecom)
Chiamare il servizio clienti e chiedere subito di disattivare sulla propria linea tutte le chiamate fatte ai numeri con prefisso 899, 709 e 166 e a tutti gli altri prefissi a tariffazione speciale. Se l’operatore dovesse negare questa richiesta insistere e spiegargli che è un diritto. Per i prefissi 899 e 166 è la disattivazione gratuita, per 709 e altri è ancora a pagamento.
Infatti se si vuole essere sicuri che nessuno possa usare il telefono per effettuare delle telefonate verso i prefissi internazionali, i prefissi diversi dal proprio, i cellulari e le numerazioni: 12, 412, 144 (il 144 è normalmente disabilitato), 166 e 899 (a richiesta e gratuitamente, tali codici sono disabilitabili in modo permanente), 170, 4175, 4176, 178, 892, 163, 164 e 709, si può richiedere il servizio di Autodisabilitazione a Chiave Numerica.

COME USARLO
Il servizio offerto da Telecom è basato su un codice segreto che viene fornito dall’operatore quando se ne fa richiesta.
La procedura di utilizzo è semplicissima:
per disabilitare il proprio telefono ad effettuare le telefonate indesiderate si deve digitare *33#, oppure comporre il numero 4711; in questa situazione si potranno effettuare telefonate nazionali ed internazionali solo tramite operatore (1795 e 170)
per riabilitare il telefono si deve digitare #33* più il codice segreto seguito da #, oppure comporre il numero 4710 più il codice segreto
per verificare se il servizio è attivo, basta digitare *#33# oppure comporre il numero 4712

QUANTO COSTA
Contributo di attivazione 13,63 € IVA inclusa
Abbonamento mensile 2,17 € IVA inclusa
Disabilitazione, riabilitazione, interrogazione gratuiti
Contributo per la variazione del codice segreto 13,63 € IVA inclusa

COME RICHIEDERLO
Nel caso dell’operatore Telecom si può richiedere il servizio telefonando al servizio gratuito 187, o rivolgendosi ai Negozi Punto 187.
Chiedere anche entro quale data sarà attiva la disattivazione e, per sicurezza, segnarsi il nome e il cognome dell’operatore con cui si è parlato e l’ora e il giorno della telefonata.

REGOLA 2
– Scaricare e installare appositi programmi
Sono reperibili su Internet appositi programmi in grado di impedire che il modem si connetta a numeri telefonici differenti da quelli del proprio provider (e quindi a tutti i numeri dei dialers).
Si può provare, con le dovute precauzioni, a scaricare ed installare uno di tali programmi.

REGOLA 3
– Utilizzare la linea ADSL
Se ci si collega ad internet con un MODEM ADSL non si potrà cambiare il fornitore di connettività (provider) e si è quindi sicuri al 100%.
Valutare se la zona in cui si abita lo consente e se la durata media delle telefonate è sufficiente per giustificare la spesa (di solito basta mezz’ora al giorno perché convenga).
Se si decide di passare all’ADSL ricordarsi sempre di RIMUOVERE fisicamente il vecchio modem analogico e/o ISDN (o per lo meno di staccarlo dalla presa del telefono dal computer). Finchè si avrà un modem analogico o ISDN installato sul computer si sarà sempre infatti a rischio.

DOPO IL RICEVIMENTO DELLA BOLLETTA
Una volta ricevuta la bolletta, bisogna controllare il dettaglio delle chiamate e calcolare quelle fatte inconsapevolmente ai 709.
Chiedere all’operatore telefonico il numero in chiaro (quello che trovate in bolletta, infatti, è indicato con 70**).
Se arriverà entro la scadenza della fattura sarà utile per la denuncia.
Fare la denuncia alle forze di polizia (ai compartimenti della polizia postale, alla guardia di finanza o ai carabinieri) che chiederanno anche di visionare il computer per vedere se la connessione non è avvenuta con il proprio consenso.
Entro la scadenza indicata sulla fattura, pagare la parte della bolletta incontestabile chiedendo al 187 o ad altro operatore il numero del conto corrente, e inviare il reclamo con raccomandata A.R. a Telecom Italia (o al proprio operatore) insieme alla copia del pagamento e della denuncia per evitare il distacco della linea.
Se la bolletta è pagata automaticamente con la domiciliazione bancaria, mandare comunque una contestazione a Telecom o al proprio operatore.
L’articolo 6 della Carta dei servizi e l’articolo 17 del contratto di Telecom Italia dicono espressamente che l’operatore è tenuto a valutare il reclamo entro 30 giorni e a informare l’utente.
Se non si ottengono risposte soddisfacenti, si possono avviare le procedure di conciliazione previste dall’Authority con delibera 182/02, tra le quali quelle previste dalle Camere di Commercio, secondo quanto indicato nell’inserto centrale dell’avanti-elenco telefonico di Telecom.

Italiani brava gente

12/11/2005 alle 1:51 PM | Pubblicato su Storia | 2 commenti

Deportazioni di massa, bombardamenti con bombe di ipirite, campi di concentramento, rappresaglie indiscriminate, stragi di civili, confisca di beni e terreni. Le pagine nere dei crimini commessi dalle truppe italiane in Eritrea, Somalia e Libia. Una politica coloniale all’insegna del mito sugli «italiani, brava gente». L’Italia repubblicana non ha ancora fatto i conti con l’«avventura coloniale» del fascismo, favorendo una storiografia moderata o revanscista

di ANGELO DEL BOCA

I paesi europei che hanno partecipato alla spartizione dell’Africa, si sono macchiati, tutti, indistintamente, dei peggiori crimini. E’ un dato suffragato da episodi sui quali esiste, nella memoria e negli archivi, una documentazione imponente. Cominciarono i boeri, due secoli fa, massacrando le popolazioni indigene del Sudafrica, in modo particolare gli Ottentotti, gli Zulù e gli Ama Xosa. Gli inglesi non furono da meno, nel Sudan, quando si trattò di annientare la resistenza mahdista. Negli stessi anni i francesi demolivano, l’uno dopo l’altro, i regni Bambara, Mossi, Fulbe, Mande, Yoruba, dalla Mauritania al Ciad, dal Senegal al Gabon. Poi intervennero i tedeschi, i quali fecero scempio degli Herero e dei Nama, nell’attuale Namibia, mentre i belgi colonizzavano il Congo con metodi spietati. Le stragi di popolazioni africane continuarono anche dopo la seconda guerra mondiale, quando il periodo coloniale sembrava ormai concluso. Come dimenticare le repressioni del maggio 1945, nella regione di Costantina, a causa delle quali persero la vita dai 20 ai 50mila algerini? E la caccia al malgascio, dopo l’insurrezione del 1947, che fece, secondo le stime dello stesso Alto Commissario in Madagascar, Pierre de Chevigné, «più di centomila morti»? E che dire della campagna contro i Mau Mau del Kenya, fra il 1952 e il 1956, con un bilancio di 10.527 uccisi e 77mila incarcerati? Ma un autentico genocidio di un popolo si sarebbe verificato in Algeria, fra il 1954 e il 1961, quando i francesi, nel folle, antistorico tentativo di conservare alla Francia la sua più antica colonia, scatenavano una guerra che avrebbe causato un milione di morti.

Tanto nel periodo della liberaldemocrazia che durante i vent’anni del regime fascista, il comportamento dell’Italia nelle sue colonie di dominio diretto non fu dissimile da quello delle altre potenze coloniali. Impiegò i metodi più brutali sia nelle campagne di conquista che nel periodo successivo, stroncando ogni tentativo di ribellione. Con l’avvento del fascismo, poi, le condizioni dei sudditi coloniali si fecero ancora più precarie, soprattutto perché fu messa a tacere in Italia l’opposizione, tanto in Parlamento che negli organi di informazione. Grazie infine alle più capillari pratiche censorie, furono tenuti nascosti agli italiani episodi di inaudita gravità, come, ad esempio, la deportazione di intere popolazioni del Gebel cirenaico, la creazione nella Sirtica di quindici letali campi di concentramento, l’uso dei gas durante il conflitto italo-etiopico, le tremende rappresaglie in Etiopia dopo il fallito attentato al viceré Graziani.
Quando Mussolini arrivò al potere, la riconquista della Libia era appena iniziata, mentre sulle regioni centrali e settentrionali della Somalia il dominio italiano era soltanto virtuale. A Mussolini, più che ai suoi generali, va dunque la responsabilità di aver adottato i metodi più crudeli per riconquistare le colonie pre-fasciste e per dare, con l’Etiopia, un impero agli italiani.
a) L’impiego degli aggressivi chimici. Usati sporadicamente in Libia, nel 1928, contro la tribù dei Mogàrba er Raedàt, e nel 1930, contro l’oasi di Taizerbo, i gas vennero invece impiegati in maniera massiccia e sistematica durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36 e nelle successive operazioni di «grande polizia coloniale» e di controguerriglia. L’Italia fascista aveva firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri venticinque paesi, un trattato internazionale che proibiva l’utilizzazione delle armi chimiche e batteriologiche, ma, come abbiamo visto, neppure tre anni dopo violava il solenne impegno usando fosgene ed iprite contro le popolazioni libiche.
In Etiopia le violazioni furono così numerose e palesi da sollevare l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale. Le prime bombe all’iprite furono lanciate sul finire del 1935 per bloccare l’avanzata dell’armata di ras Immirù Haile Sellase, che puntava decisamente all’Eritrea, e quella di ras Destà Damtèu, che aveva come obiettivo Dolo, in Somalia. In tutto, durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36, furono sganciate su obiettivi militari e civili 1.597 bombe a gas, in prevalenza del tipo C.500-T, per un totale di 317 tonnellate. Altre 524 bombe a gas furono lanciate, tra il 1936 e il 1939, durante le operazioni contro i patrioti etiopici. Se si aggiunge, infine, che durante la battaglia dell’Endertà furono sparati dalle batterie di cannoni di Badoglio 1.367 proiettili caricati ad arsine, non si è lontani dal ritenere che in Etiopia siano stati impiegati non meno di 500 tonnellate di aggressivi chimici.

b) I campi di sterminio. Con il fascismo le vessazioni nei confronti degli indigeni raggiunsero livelli mai prima segnalati. Dall’esproprio dei terreni, dalla confisca dei beni dei «ribelli», dal diffuso esercizio del lavoro forzato, si passò alla deportazione di intere popolazioni e alla loro segregazione in campi di concentramento, che soltanto la cinica prosa dei documenti ufficiali aveva il coraggio di definire «accampamenti». Il più noto e drammatico di questi trasferimenti coatti avvenne in Cirenaica nel 1930, dopo che Graziani aveva fallito il tentativo di domare la ribellione capeggiata da Omar el-Mukhtàr. Su ordine del governatore generale Badoglio, il quale era convinto che la rivolta si sarebbe potuta infrangere soltanto spezzando i legami tra gli insorti e le popolazioni del Gebel cirenaico, Graziani predisponeva il trasferimento di 100mila civili dalla Marmarica e dal Gebel el-Ackdar ai campi di concentramento che aveva fatto costruire nella Sirtica, una delle regioni più inospitali dall’Africa del Nord. Quando i lager vennero definitivamente sciolti nel 1933, i sopravvissuti erano appena 60mila. Gli altri 40mila erano morti durante le marce di trasferimento, per le pessime condizioni sanitarie dei campi (per i 33mila reclusi nei lager di Soluch e di Sidi Ahmed el-Magrun c’era un solo medico), per il vitto insufficiente e spesso avariato, per le inevitabili epidemie di tifo petecchiale, dissenteria bacillare, elmintiasi, per le violenze compiute dai guardiani e per le esecuzioni sommarie per chi tentava la fuga.
I campi di sterminio nella Sirtica non furono i soli. Memore della loro macabra efficacia, Graziani ne istituì uno anche in Somalia, a Danane, a sud di Mogadiscio. Secondo Micael Tesemma, un alto funzionario del ministero degli Esteri etiopico, che fu recluso a Danane per tre anni e mezzo, dei 6.500 etiopici e somali che si avvicendarono nel campo, tra il 1936 e il 1941, 3.171 vi persero la vita.
Un secondo campo fu istituito nell’isola di Nocra, in Eritrea. Qui le condizioni di vita erano anche più intollerabili, perché i detenuti erano costretti al lavoro forzato nelle cave di pietra, con temperature che a volte raggiungevano i 50 gradi. L’alto tasso di mortalità a Nocra era causato principalmente dalla malaria e dalla dissenteria, poi dal cattivo nutrimento e dalle insolazioni.
c) Le stragi. L’intera storia delle conquiste coloniali italiane è punteggiata da stragi e da esecuzioni sommarie. Ma vi sono episodi che emergono per la loro spiccata gravità. Nella notte del 26 ottobre 1926, ad esempio, avendo saputo che lo scek Ali Mohamed Nur, un capo religioso ostile all’Italia, era sfuggito all’arresto e si era barricato con i suoi seguaci nella moschea di El Hagi, a Merca, una cinquantina di coloni italiani di Genale, ex squadristi, armati di moschetti e di fucili da caccia, puntò su Merca, circondò la moschea e trucidò tutti i suoi occupanti, un centinaio di somali. Il massacro sarebbe stato anche più ingente se, al mattino, a sostituire gli squadristi, che intendevano liquidare tutta la popolazione indigena della zona, non fossero intervenuti i reparti dell’esercito.
Dalla Somalia passiamo alla Libia. Nel febbraio del 1930, alla fine delle operazioni per la riconquista del Fezzan, Graziani spinse un migliaio di mugiahidin, con le loro famiglie, verso il confine con l’Algeria e poiché non fece in tempo ad intrappolarli, per due giorni consecutivi lanciò tutti gli aerei a sua disposizione sulle mehalla in fuga. Fu una carneficina, come testimonia lo stesso inviato de Il Regime Fascista, Sandro Sandri, il quale assistette ai bombardamenti e mitragliamenti del «gregge umano composti, oltreché degli armati, da una moltitudine di donne e bambini».
Ma è in Etiopia, nel cristiano e millenario impero del Prete Gianni, che furono consumati i più orrendi eccidi, alcuni dei quali non ancora studiati a fondo per cui il numero delle vittime potrebbe ancora aumentare. Cominciamo con le stragi compiute ad Addis Abeba dopo l’attentato del 19 febbraio 1937 al viceré Graziani. Per tre giorni, su ordine del segretario federale della capitale, Guido Cortese, fu impartita agli etiopici, che erano assolutamente estranei all’attentato, una «lezione indimenticabile». Alla selvaggia repressione presero soprattutto parte camicie nere, civili italiani ed ascari libici e fu condotta, come riferisce un testimone degno di fede, il giornalista Ciro Poggiali, «fulmineamente, coi sistemi del più autentico squadrismo fascista». Quando, il 21 febbraio, Graziani diramò, dall’ospedale in cui era stato ricoverato per le ferite subite, l’ordine di cessare la rappresaglia, la capitale era disseminata di cadaveri. Mille morti, secondo Graziani; da 1.400 a 6.000, secondo le stime dei testimoni stranieri; 30mila, a sentire gli etiopici.
Cessata la strage in Addis Abeba, la repressione continuò in tutte le altre regioni dell’impero. Si dava soprattutto la caccia agli indovini e ai cantastorie, ritenuti responsabili di aver annunciato nelle città e nei villaggi la fine prossima del dominio italiano in Etiopia. Secondo una relazione del colonnello Azolino Hazon, la sola arma dei carabinieri passò per le armi, in meno di quattro mesi, 2.509 indigeni. Alle operazioni repressive partecipò anche l’esercito. Al generale Pietro Maletti venne infatti affidato l’incarico di punire i religiosi della città conventuale di Debrà Libanòs, ingiustamente sospettati di aver favorito l’attentato a Graziani ospitando i due esecutori materiali, gli eritrei Abraham Debotch e Mogus Asghedom. Tra il 18 e il 27 maggio 1937 Maletti portò a termine la sua missione fucilando 449 monaci e diaconi.
Queste cifre le abbiamo desunte dai dispacci che Graziani inviava quotidianamente a Mussolini, e fino a qualche tempo fa le ritenevamo attendibili poiché Graziani ha sempre avuto la tendenza a non celebrare, e soprattutto a non ridurre, le cifre della sua macabra contabilità. Il viceré, infatti, commentando la strage di Debrà Libanòs non aveva mostrato alcuna reticenza nel sottolineare l’estremo rigore della punizione: «E’ titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’Abuna all’ultimo prete o monaco».
Ma dovevo sbagliarmi sulle cifre della strage. Due miei collaboratori, Ian L. Campbell, dell’Università di Nairobi, e Degife Gabre-Tsadik, dell’Università di Addis Abeba, compivano fra il 1991 e il 1994 alcuni accurati sopralluoghi nelle località in cui Maletti decimò il clero copto e giunsero alla conclusione, dopo aver intervistato alcuni superstiti della strage e alcuni testimoni delle operazioni di Maletti, che le cifre riferite da Graziani erano del tutto inattendibili. In realtà, le mitragliatrici di Maletti hanno abbattuto a Debrà Libanòs, Laga Wolde e a Guassa, non 449 tra preti, monaci, diaconi e debteras, ma un numero di religiosi che si aggira tra i 1.423 e i 2.033. Data la serietà dei due ricercatori e il numero delle testimonianze raccolte, nel 1997 pubblicavo il loro lungo rapporto sul numero 21 di «Studi Piacentini».
Questa non è che una sintesi molto lacunosa dei torti che l’Italia fascista ha fatto alle popolazioni africane da essa amministrate. Dovremmo infatti anche parlare delle leggi razziali, che confinavano gli indigeni nei loro ghetti, anticipando di vent’anni i rigori e gli abusi dell’apartheid sudafricana. Dovremmo ricordare i limiti imposti all’istruzione, tanto che in settant’anni di presenza italiana in Africa nessun indigeno ebbe la facoltà e i mezzi per ottenere un diploma o una laurea. Dovremmo infine ricordare che ai sudditi africani erano riservati soltanto ruoli subalterni, i più modesti ed umilianti. Un fatto del genere non accadeva nelle colonie africane della Francia e della Gran Bretagna.
Questi crimini furono accuratamente nascosti agli italiani con tutti gli strumenti di cui può disporre una dittatura. E se qualche verità filtrava all’estero, ad esempio sui gas impiegati in Etiopia, il regime reagiva rabbiosamente sostenendo che un popolo che stava portando la civiltà in Africa non poteva macchiarsi di tali infamie.
Molti testimoni italiani di stragi o dell’impiego delle armi chimiche si decideranno a svelare i loro segreti soltanto trenta, quaranta, cinquanta anni dopo gli avvenimenti e sempre con qualche reticenza. Altri, invece, e sono i più numerosi, non hanno mai testimoniato sui crimini, perché non li ritenevano tali, ma li consideravano normali pratiche per tenere a freno popolazioni che giudicavano barbare. Molti, fra costoro, si sono fatti fotografare in posa dinanzi alle forche o reggendo per i capelli teste mozze di patrioti etiopici.
Questa macabra, allucinante documentazione fotografica è visibile negli Archivi storici di Addis Abeba e proviene dagli uffici degli organi giudiziari italiani scampati alle distruzioni della guerra, o dai portafogli degli italiani finiti prigionieri degli etiopici alla caduta dell’impero.
Il mito degli «italiani brava gente» cominciò ad affermarsi quando ancora l’Italia era impegnata in Africa a difendere i suoi territori. Se si sfogliano le riviste coloniali dell’epoca si nota l’insistenza con la quale il regime fascista cercava di accreditare la tesi dell’italiano impareggiabile costruttore di strade, ospedali, scuole; dell’italiano che in colonia è pronto a deporre il fucile per impugnare la vanga; dell’italiano gran lavoratore, generoso al punto da porre la sua esperienza al servizio degli indigeni. Si tentava, insomma, di costruire il mito di un italiano diverso dagli altri colonizzatori, più intraprendente e dinamico, ma anche più buono, più prodigo, più tollerante. Insomma il prodotto esemplare di una civiltà millenaria, illuminato dalla fede cattolica, fortificato dalla dottrina fascista. Questo mito sopravviverà alla sconfitta nella seconda guerra mondiale e impregnerà tutti i documenti che i primi governi della Repubblica presenteranno alle Nazioni unite o ad altre assise internazionali nel tentativo, fallito, di salvare, se non tutte, almeno le colonie prefasciste.
Non soltanto resisteva il mito degli «italiani brava gente», ma si impediva con ogni mezzo che si svolgesse nel paese un sereno e costruttivo dibattito sul colonialismo. Gli effetti del mancato dibattito sono visibili, come sono palesi i danni arrecati. Il primo dato negativo è la rimozione quasi totale, nella memoria e nella cultura storica dell’Italia, del fenomeno dell’imperialismo e degli arbitri, soprusi, crimini, genocidi ad esso connessi. A 117 anni dallo sbarco a Massaua del colonnello Tancredi Saletta, a 91 dallo sbarco del generale Caneva a Tripoli, a 67 dall’aggressione fascista all’Etiopia, l’Italia repubblicana non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti, delle leggende, delle contraffazioni che si sono formate nel periodo coloniale, mentre una minoranza non insignificante di reduci e di nostalgici li coltiva amorevolmente e li difende con iattanza.
Non soltanto è stato contrastato ogni tentativo di aprire un dibattito a livello nazionale sul colonialismo, che coinvolgesse storici, forze politiche ed opinione pubblica, ma si è anche tentato, da parte di alcune istituzioni dello Stato, di esercitare il monopolio su alcuni archivi per impedire che affiorasse la verità, mentre una storiografia di segno moderato o revanscista favoriva palesemente la rimozione delle colpe coloniali.
A quando i processi postumi ai Badoglio, ai Graziani, ai De Bono, ai Lessona, ai Cortese, ai Maletti e a tutti gli altri responsabili dei genocidi africani rimasti impuniti? A quando la verità nei libri di testo scolastici, che ignorano persino l’argomento? A quando la proiezione sulla Tv di Stato dell’inchiesta televisiva «Fascist Legacy» di Ken Kirby e Michael Palumbo sui crimini di guerra italiani in Africa e nei Balcani? Come è noto, la Rai-Tv acquistò questo filmato dalla Bbc molti anni fa ma non lo ha mai trasmesso. Perché? Per quali veti? Per quale ipocrita riserbo? Per quale motivo è ancora proibito proiettare nelle sale Il Leone del deserto, il film di Akkad che narra l’epopea tragica di Omar el-Mukhtàr, impiccato da Graziani nel lager di Soluch?

L’INVITO (che cosa mi interessa di te)

12/11/2005 alle 12:26 PM | Pubblicato su Poesia | 3 commenti

Non mi interessa che cosa fai per guadagnarti da vivere,
voglio sapere che cosa ti fa soffrire e se osi sognare di incontrare il desiderio nel tuo cuore.
Non mi interessa quanti anni hai,
voglio sapere se rischierai di sembrare ridicolo per amore,
per i tuoi sogni, per l’avventura di essere vivo.
Non mi interessa quali pianeti sono in quadratura con la tua luna,
voglio sapere se hai toccato il centro del tuo dispiacere,
se sei stato aperto dai tradimenti della vita o ti sei inaridito e chiuso per la paura di soffrire ancora.
Voglio sapere se puoi sopportare il dolore, mio o tuo,
senza muoverti per nasconderlo, sfumarlo o risolverlo.
Voglio sapere se puoi vivere con la gioia, mia o tua;
se puoi danzare con la natura e lasciare che l’estasi ti pervada
dalla testa ai piedi senza chiedere di essere attenti,
di essere realistici o di ricordare i limiti dell’essere umani.
Non mi interessa se la storia che racconti è vera,
voglio sapere se riusciresti a deludere qualcuno per mantenere fede a te stesso;
se riesci a sopportare l’accusa di tradimento senza tradire la tua anima.
Voglio sapere se puoi essere fedele e quindi degno di fiducia.
Voglio sapere se riesci a vedere la bellezza anche quando non è sempre bella;
e se puoi ricavare vita dalla Sua presenza.
Voglio sapere se riesci a vivere con il fallimento, mio e tuo,
e comunque rimanere in riva a un lago e gridare alla luna piena d’argento: “Sì!”
Non mi interessa sapere dove vivi o quanti soldi hai,
voglio sapere se riesci ad alzarti dopo una notte di dolore e di disperazione,
sfinito e profondamente ferito e fare ugualmente quello che devi per i tuoi figli.
Non mi interessa chi sei e come sei arrivato qui,
voglio sapere se rimani al centro del fuoco con me senza ritirarti.
Non mi interessa dove o che cosa o con chi hai studiato,
voglio sapere chi ti sostiene all’interno, quando tutto il resto ti abbandona.
Voglio sapere se riesci a stare da solo con te stesso e se
apprezzi veramente la compagnia che ti sai tenere nei momenti di vuoto.

 

(Queste parole sono di Oriah Mountain Dramer, anziano di una tribù pellerossa: ogni domanda è una riflessione, una risposta che da vivi, forse, non conosceremo mai. Se qualcuno volesse provarci, a dare una risposta o a raccontarsi, ha tutto lo spazio ed il tempo che vuole).

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